Il regista egiziano Mohamed Diab porta alla Mostra del Cinema di Venezia un dramma incisivo e straziante, trattato con pudore e dolore, e con una ricerca del sentimento intensi.
Scritto dal regista con Khaled Diab e Sherin Diab, ispirato a fatti reali, affronta sotto una luce nuova il conflitto arabo-israeliano.
Amira è una brillante studentessa diciassettenne, con la passione per la fotografia. Sua madre ha sposato suo padre quando l’uomo era già in carcere per terrorismo.
Amira è stata concepita con il seme del padre, Nawar, attraverso una prassi comune: contrabbando di sperma, dal carcere, una forma atea e disperata di “immacolata concezione” messa in atto da ginecologi, con i secondini a fare da trafficanti tra mariti e mogli.
Amira conosce il padre solo attraverso il vetro del parlatorio; è il suo mito, il suo combattente per la libertà.
Per una serie di problemi, tra cui diversi scioperi della fame, le misure nel carcere si sono nuovamente allentate, cioè si prospetta la possibilità di un nuovo concepimento, come la prima volta. Ma questo nuovo tentativo fallisce, portando a galla una verità angosciante, violenta e soffocante.
Con uno sguardo dall’interessante sensibilità femminile e un mestiere narrativo dall’ammirevole stile sobrio, Amira lascia il segno nel cuore dello spettatore, e lo turba.
Identità, libertà, onore, riscatto sono i temi caldi e centrali su cui ruota questa storia. Il legame di paternità è solo una sottotraccia per parlare di qualcosa di più grande e universale: la ferocia della guerra che, anche senza l’uso di bombe e fucili, arriva a compiere atti di sfregio disumani.
Amira e sua madre Warda vivono su di loro e dentro di loro il conflitto millenario, un odio radicato in entrambe le trincee, palestinese e israeliana; mossa da vendetta la prima e disperazione la seconda, agiscono nell’ineluttabilità di un destino.
Non c’è un dialogo di troppo, non c’è una sbavatura in questo dramma interpretato con un trasporto e devozione.
Da vedere!