Lo scrittore vincitore del Premio Strega 2017 (Le Otto Montagne) Paolo Cognetti, milanese innamorato della Montagna, dirige il suo primo lungometraggio: un docufilm con protagonista il Monte Rosa un luogo geografico ma soprattutto un luogo della comprensione di quanto abbiamo intorno.
Nelle sale solo il 25, 26, 27 novembre distribuito da Nexo Digital
elenco sale disponibile su nexostudios.it
Quando nell’estate del 2022 l’Italia è devastata dalla siccità, Paolo Cognetti assiste per la prima volta all’esaurimento della sorgente della sua casa a Estoul, piccolo borgo posto a 1700 metri di quota che sovrasta la vallata di Brusson.
È la ricerca della fonte di quell’acqua a spingerlo a voler raccontare la bellezza delle sue montagne, dei paesaggi e dei ghiacciai ormai destinati a sparire o cambiare per sempre a causa del cambiamento climatico.
Scalando il ghiaccio, in compagnia dell’inseparabile cane Laki, Paolo Cognetti attraversa paesaggi mozzafiato e incontri con chi nella montagna ha trovato, prima che una casa, un vero e proprio “luogo del sentire”.
Con lui ci sono il direttore della fotografia Ruben Impens, conosciuto sul set delle Le otto montagne e che firma anche la fotografia di Fiore Mio, e le persone incontrate durante questo viaggio. Come l’amico di una vita Remigio, nato e cresciuto in val d’Ayas, di cui conosce ogni luogo e custodisce la memoria.
Ci sono Arturo Squinobal, una vita dedicata alle montagne e un volto che ne ricorda le tracce, e sua figlia Marta, che Paolo conosce sin dall’infanzia e che ha trasformato l’Orestes Huette nel primo e unico rifugio vegano delle Alpi.
E ancora ci sono Corinne e Mia, donne dei rifugi che accolgono i viandanti con il sorriso caloroso e rilassato di chi ama ciò che fa. C’è il silenzioso eppure tagliente Sete, sherpa d’alta quota che ha scalato tre Ottomila – Everest, Manaslu e Daulaghiri – e si divide tra Italia e Nepal: lavora qui d’estate e d’inverno, mentre in autunno e in primavera fa la guida per i trekking in Himalaya, dove ha moglie e figli.
A chiudere il viaggio la presenza preziosa del cantautore Vasco Brondi, amico fraterno di Cognetti e in questa occasione al lavoro su un’intera colonna sonora, appena uscita per Carosello Records col titolo “Ascoltare gli alberi”. Anticipato dagli inediti “Ascoltare gli alberi” – scritto da Vasco Brondi per i titoli di coda del film – e “3000 metri” e contenente il brano “Tornare a casa”, che vede la partecipazione straordinaria, per testo e lettura, di Paolo Cognetti, l’album rappresenta un esordio condiviso sia per il cantautore, che si è cimentato per la prima volta nella scrittura delle musiche originali di un film, sia per lo scrittore, che mai prima d’ora aveva prestato la sua voce per un brano.
“Fiore mio”, la traccia presente nel finale del film e che ne ha ispirato il titolo, è invece da tempo una delle canzoni più popolari di Andrea Laszlo De Simone, cantautore e musicista torinese che ha vinto il Premio César 2024 per la Migliore Musica Originale di Animal Kingdom (Le Règne Animal), divenendo il primo italiano ad aggiudicarsi questo prestigioso premio.
I Tre Rifugi Nella meditazione buddista i Tre Rifugi sono il Maestro, la Via e la Comunità dei praticanti. Il viaggio di Paolo Cognetti nel film è proprio un “prendere rifugio”, un viaggio verso la fonte dell’acqua che non c’è più a casa sua, un cercare le forze per affrontare i continui cambiamenti del mondo. Gli spiriti dei morti, remoti e recentissimi, si alzano nella notte da un fuoco. Ci sono luoghi che hanno nomi che solo in pochi ricordano, e chi non ricorda i nomi non ricorda le storie.
Il Quintino Sella
“Niente” – risponde Sete ridendo, quando Paolo gli chiede che cosa desidera. Sete è uno sherpa che qualche anno fa è venuto a vivere in Valle d’Aosta e adesso lavora al Quintino Sella, uno dei rifugi più alti d’Europa a 3600 mt di quota. Quello che guadagna in Italia va in Nepal, dove vive la sua famiglia e dove lui ha visto tanti amici, sherpa anche loro, finire la propria vita sotto una valanga o in un crepaccio. Sete non dice mai che sono morti, dice che sono “finiti”. E ride. Non è un modo per stemperare il nervosismo, è una risata che insegna qualcosa.
L’Orestes Hutte
Arturo è l’uomo che ha portato Paolo sul ghiacciaio per la prima volta, quando lui non era ancora uno scrittore ma un bambino emozionato e spaventato di dover seguire quel maestro, che ancora oggi, a 80 anni, continua a esplorare il suo ghiacciaio, a orientarsi con l’aiuto degli stambecchi. Arturo e suo fratello Oreste sono due alpinisti che, tra le varie imprese, hanno aperto vie invernali sul Bianco e sul Cervino. Oggi Oreste non c’è più, ma Arturo e la figlia Marta hanno costruito in sua memoria l’Orestes Hutte, il primo rifugio vegano delle Alpi. Verrebbe facile pensare che si sentano i custodi della montagna, ma quando Paolo prova a chiederglielo, la loro risposta lo lascia sorpreso.
Il Mezzalama
Mia lavora da poco al Mezzalama. Lei ha 26 anni e il rifugio 89, non è cambiato da allora. Mia è antropologa e viaggiatrice, ha fatto stagioni sul ghiacciaio e altre da McDonald’s a Dublino, non sa dove sarà l’anno prossimo. Dice che il lavoro in rifugio è perfetto per chi vuole fuggire, che qui lei diventa “trasparente”. Dice che lavorare in rifugio è restare fermi immobili e che lei può tornarci quando è lontana, se vuole, le basta chiudere gli occhi. Si sente un albero che cambia a ogni stagione ma non è ancora pronta a mettere radici. Va bene così, anche se le viene da piangere partendo e le scappa di dire “Merda!”, non sapendo di essere registrata.