“The Fabelmans” di Steven Spielberg

Dov’è l’orizzonte?

Per chi negli anni 80 è cresciuto a pane e Spielberg, The Fabelmans è il film di Natale da guardare tutto l’anno atteso più o meno da tempo immemore.

Definito dal regista “una seduta di analisi da 40 milioni di dollari”, The Fabelmans è anche una favola (il titolo è il cognome della famiglia protagonista, ma evoca una storia di leggende), ma prima di tutto è un film sincero e poetico, personale e universale.
Spielberg ha trasformato le gioie e i dolori dalla sua infanzia e adolescenza (i ricordi vanno dal 1952 al 1965) in un un film dal linguaggio gentile, coinvolgente e profondo, prodigo di dettagli, costruito su sguardi colmi di emozioni.

Spielberg tocca e affronta con sapiente e delicata drammaturgia e genuina ironia argomenti sensibili e intimi (la nascita del suo amore per la Settima Arte, il dolore penetrante per la separazione dei suoi genitori, il bullismo razzista subito al liceo) senza cedere nella retorica melodrammatica né in noie logorroiche e autoriali.


Scritta da Steven Spielberg, al suo 34° film, con il suo storico collaboratore Tony Kushner, la storia inizia al cinema: nella gelida notte del 10 gennaio 1952, Sammy (piccolo: Mateo Zoryon Francis-Deford; adolescente: Gabriel LaBelle), insieme alla madre Mitzi (Michelle Williams) e al padre Burt (Paul Dano), vede il suo primo film, Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille. Sammy è come paralizzato dalla visionarietà di quello che sta guardando. “I film sono come sogni che non dimenticherai mai”, dice Mitzi al piccolo Sammy, mentre il padre Burt gli spiega la tecnica scientifica dei fotogrammi al minuto.

È la scintilla che scocca la freccia della passione cinematografica dentro di lui nei vari trasferimenti per seguire il lavoro del padre, dal New Jersey all’Arizona alla California settentrionale.
La madre Mitzi è una pianista professionista, il padre Burt un ingegnere, le tre sorelle sono tre anime acute, Sammy vuole fare film e inizia osservando la sua famiglia, poi coinvolgendo le sorelle, i suoi amici e compagni.

Con passione e inventiva Sammy si dedica a documentari, film amatoriali sempre più elaborati, creando e scoprendo da autodidatta tecniche da regista consumato. Osserva silenzioso la vita, offendendosi quando definiscono i suoi lavori “un hobby”.  Il suo ultimo anno del liceo, a 16 anni, la famiglia si trasferisce a Los Angeles perché il padre ha ottenuto un lavoro prestigioso alla IBM. È l’anno della sua crisi personale e professionale. Come è possibile creare arte immersi nel dolore quando gli amati genitori si separano?

Con le musiche di John Williams, il confine tra realtà e finzione cinematografica è quasi impossibile da segnare, il regista elabora la sua storia personale attraverso un lessico cinematografico emotivamente coinvolgente per rendere partecipe lo spettatore. Ma verso il finale il suo interesse è mostrare la catarsi del dolore di figlio e della crisi del giovane artista. Qui la sua memoria si fa adulta e la narrazione cinematografica regala un incantevole lieto fine, dalla dolce malinconia spielberghiana. Ulteriore medaglia filmica da appuntare alla macchina da presa di Spielberg è l’aver scelto un cast meraviglioso. Ogni attore vive con grande umanità il personaggio, lo fa vibrare di vivacità che arriva diritta al cuore dello spettatore.

Questo film è una storia d’amore, sulla vita e sul Cinema.
Il finale è la ciliegina su una torta già perfetta: l’incontro del giovane Spielberg con il mito John Ford interpretato da David Lynch!