… di wrestling, Dio e Famiglia. … O di muscoli, machismo e maschere.
Il terzo film Sean Durkin (La fuga di Martha, The Nest) indaga nuovamente la sfera e le dinamiche di una famiglia squilibrata.
Qui scrive e dirige un dramma sportivo tratto da una storia vera ancora più drammatica se non addirittura disperata della famiglia americana Von Erich, che ha “fatto” la storia del wrestling.
In Texas tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 il patriarca Fritz (Holt McCallany) alleva i suoi figli per ottenere quello che lui non è mai riuscito a vincere: la cintura di campione del mondo di wrestling.
A tutti i costi.
Mentre la moglie Doris (Maura Tierney), devota a Dio e al marito, risponde con un perentorio (e poco rassicurante) “Dio ti ama” ai 4 figli maschi che chiedono consigli o invocano aiuto, questi ultimi subiscono il giudizio, la volontà, il destino implacabile di un padre allenatore con la sua classifica di figli prediletti, che, come ogni classifica, può sempre cambiare.
E cambia in base ai risultati ottenuti sul ring di questo sport dove in scena ci sono uomini con muscoli smisurati e tendini in tensione, con capigliature o abbigliamenti da fumetto, che competono in coreografie violente di puro machismo. È uno show, è uno spettacolo brutale su uno sfondo circense, è diventato parte culturale dell’America che ho formato gli elettori di Trump.
I fratelli Kevin (Zach Efron la cui metamorfosi per questo film è impressionante quasi spaventosa), David (Harris Dickinson), Kerry (Jeremy Allen White) e Mike (Stanley Simons).
Alcuni li soprannominarono i Kennedy del wrestling per le tragedie e catastrofi che seguirono.
Fritz negli anni 60 andava a combattere presentandosi con una croce di ferro sul petto, e la sua mossa mossa caratteristica, l’Artiglio di Ferro (Iron Claw è infatti il titolo originale), era una morsa che applicava alla testa di un avversario, paralizzandolo, a volte facendolo sanguinare.
L’artiglio di ferro è il sistema educativo imposto dal patriarca ai suoi figli, e non c’è morte che faccia vacillare nessuno (e ne sono seguite a catena; addirittura il regista ha deciso di tagliare fuori dalla storia un quinto fratello deceduto perché la trama non avrebbe potuto reggere un altro lutto. Scelta non comprensibile considerato che non è opera di fiction).
Sean Durkin, con il direttore della fotografia Mátyás Erdély, che restituisce i colori delle pellicole granulose di quegli anni, la colonna sonora di Richard Perry degli Arcade Fire, che si alterna a brani dell’epoca, compone un film di 132 tristi e cupi minuti. Il sogno del regista era da sempre realizzare un film sul wrestling, ne era ossessionato.
The Warrior non mostra tanto la violenza sul ring, quanto nelle relazioni emotivamente tossiche di questa famiglia, mostra i danni di un’educazione militare sportiva corrosiva e autodistruttiva che sparge morte, come una maledizione. Ambizioso nelle intenzioni, il film cerca meticolosamente di restituire la vita vera, ma fa fatica a mantenere il ritmo.
L’attrazione del regista verso questo sport, il suo desiderio di raccontare questa famiglia non gli hanno fatto trovare la giusta distanza o distacco emotivo per scindere il suo “mito” dalla narrazione. Durkin racconta usando toni intimi, ma – al netto delle tragedie che lasciano ammutoliti – non riesce a far sentire questa intimità, non arriva a toccare l’emotività dello spettatore.